originale
originale

Qualità affettiva dell'ambiente lavorativo e prestazione dei lavoratori

2024-12-12 16:33

Simone Zanolo

Qualità affettiva dell'ambiente lavorativo e prestazione dei lavoratori

I curiosi risultati di uno studio sul campo

I curiosi risultati di uno studio sul campo

 

 

 

 

Mi sono recentemente laureato in Psicologia per la Formazione presso l’Università di Verona con una tesi sull’impatto della qualità affettiva degli ambienti sulla prestazione lavorativa individuale. Mettetevi comodi, perché vorrei inaugurare questa serie di riflessioni descrivendovi i risultati per me più sorprendenti della mia analisi (ed i miei relatori di tesi mi perdoneranno se lo farò in maniera poco ortodossa).

Il tema della prestazione lavorativa è a me molto caro in quanto, nel mio lavoro di Business Coach, mi trovo spesso a gestire richieste di aziende e lavoratori su come migliorare la prestazione lavorativa, propria o altrui.

La prestazione lavorativa è, assieme al benessere individuale, la variabile di esito più studiata nella Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni. La tesi di base è che, in un contesto competitivo in sempre più rapida evoluzione, la sopravvivenza delle organizzazioni dipenda sempre più dalla produttività dei propri collaboratori.

La prestazione lavorativa individuale è al centro di tutte le politiche di gestione delle risorse umane: i processi di selezione puntano ad identificare i candidati che possono performare meglio in un determinato ruolo; la formazione e lo sviluppo dei talenti hanno come obiettivo quello di massimizzare la prestazione individuale; i processi di valutazione e le politiche retributive sono disegnati per premiare chi più degli altri contribuisce al raggiungimento degli obiettivi organizzativi.

Molti tentativi sono stati fatti in ambito accademico per identificare i fattori in grado di influenzare la prestazione lavorativa individuale, in modo da fornire ai responsabili delle Risorse Umane spunti concreti su cui sviluppare le proprie iniziative in maniera “evidence based”. Il mio modestissimo contributo si è concentrato sugli effetti della qualità affettiva degli ambienti lavorativi attraverso l’analisi di 109 questionari distribuiti ad una popolazione variegata di lavoratrici e lavoratori d’ufficio.

Cosa si intende per qualità affettiva degli ambienti? Nel 1974, gli psicologi Russell e Merhabian hanno proposto un modello di psicologia ambientale secondo cui le reazioni degli individui ad un determinato ambiente sono misurabili lungo tre assi emotivi: il senso di piacevolezza, attivazione e senso di controllo della situazione suscitati dall’ambiente stesso.

Combinando una misura dei tre assi con una la percezione da parte dei rispondenti del grado di raggiungimento dei propri obiettivi lavorativi negli ultimi 12 mesi, ho ottenuto le misure necessarie per effettuare la mia analisi.

Gli unici risultati anche statisticamente significativi (quindi potenzialmente validi e generalizzabili al di fuori del campione) sono stati ai miei occhi abbastanza sorprendenti: la prestazione lavorativa individuale sembra beneficiare della combinazione di un ambiente non attivante (che fa rima con stressante, e fin qui ci siamo) e di uno scarso senso di controllo della situazione da parte dei collaboratori.

Al netto di eventuali difetti di accuratezza delle misure, li risultato è tanto più sorprendente quanto più in contrasto con le teorie più in voga sulla leadership, prevalentemente basate sulla convinzione che coinvolgimento e responsabilizzazione dei propri collaboratori siano gli strumenti da perseguire al fine di aumentare la motivazione e la prestazione degli stessi. Come spiegare questa apparente contraddizione?

Ho trovato una risposta rispolverando una vecchia teoria sulla leadership sviluppata dallo psicologo Kurt Lewin e colleghi oltre 100 anni fa. Gli autori avevano teorizzato tre tipi di leadership: autocratica, collaborativa, lassista. Il leader autocratico tende ad organizzare e dirigere ogni attività e a non coinvolgere i propri collaboratori, che devono solo eseguire le direttive impartite loro. Questo stile sembra quello che massimizza la prestazione dei collaboratori nel breve periodo. Ma è anche quello che crea più dipendenza dal leader (tanto che in sua assenza, nessuno dei collaboratori è in grado di prendere l’iniziativa) e maggiore malcontento, che nel lungo periodo può portare a comportamenti controproducenti e minore prestazione.

La mia ricerca non è riuscita a dimostrare le ipotesi di partenza (e cioè che il senso di piacevolezza e di dominanza della situazione siano tra i fattori scatenanti della prestazione lavorativa), ma ha forse confermato una teoria di cento anni fa (!!!) sugli effetti dei vari stili di leadership. I dati emersi dalla mia ricerca sono compatibili con uno scenario di tipo autocratico, trasversale a organizzazioni diverse, in cui i collaboratori (al di là di eventuali dichiarazioni di intenti) sono meri esecutori di una strategia che non sentono (e non vogliono sentire) loro.  Il fatto che, nella mia ricerca, il senso di piacevolezza dell’ambiente di lavoro non giochi un ruolo statisticamente significativo sulla prestazione, dopotutto, potrebbe non essere casuale.

Nella mia esperienza di Executive Coach, uno stile di leadership autocratico rappresenta la comfort zone del manager: è più facile regalare il pesce (magari anche già cotto) piuttosto che insegnare a qualcuno a pescare (e a cucinare). Ma questo ha un costo, neanche tanto nascosto: il carico di lavoro del manager (di ogni livello) di sicuro non diminuisce nel tempo, anzi. Occuparsi sempre in prima persona di questioni realizzative rischia di portare via tempo ad attività più remunerative per l’azienda e gratificanti per l’individuo. Uno stile di leadership improntato alla progressiva crescita dei collaboratori potrebbe rappresentare un investimento più oneroso all’inizio, ma i ritorni in termini di soddisfazione lavorativa e qualità della prestazione a livello organizzativo potrebbero essere importanti.

Questo è uno dei pilastri fondamentali della cultura del coaching. Purtroppo, nella mia esperienza, i manager di ogni livello, che trarrebbero i maggiori vantaggi da questo stile di leadership, sono i primi a subire le pressioni di breve periodo da parte dei vertici aziendali e, in ultimo, dagli azionisti. La cultura organizzativa (nelle piccole come nelle grandi aziende) raramente è favorevole ad uno stile di leadership incentrato sul lungo periodo e sulla crescita dei collaboratori.

“Ci vuole tempo, ed il tempo è una risorsa scarsa”, mi sento ripetere spesso. Ma siamo sicuri che le organizzazioni usino il tempo dei propri collaboratori in maniera efficace?

Ma questa è un’altra storia.

Referenze

 

Lewin, K., Lippitt, R., & White, R. K. (1939). Patterns of aggressive behavior in experimentally created "social climates." The Journal of Social Psychology, 10, 271–299. https://doi.org/10.1080/00224545.1939.9713366

 

Mehrabian, A., & Russell, J. A. (1974a). An approach to environmental psychology. The MIT Press.

 

Per maggiori dettagli sulla ricerca descritta in questo articolo, contattatemi!

Esperienza manageriale e competenze psicologiche al servizio del benessere di individui e organizzazioni

©